La luce: dalla pittura alla fotografia

Avete mai sentito parlare della luce di Caravaggio tanto amata da Storaro celebre direttore della fotografia? Il pittore lombardo grazie ad un uso magistrale del chiaroscuro, crea giochi di ombra capaci di aggiungere un tono drammatico ai suoi dipinti. L’opera “Marta e Maddalena”, ad esempio, mostra Marta nell’atto di convertire la sorella. Con una mano regge uno specchio su cui è riflessa una finestra. È questa la sorgente di luce che illumina il volto austero di Marta mentre Maddalena di profilo è illuminata dal riflesso dello specchio.
Ad un’attenta lettura si evince come la luce abbia un forte potere simbolico. Lo specchio verso cui è rivolta Maddalena e che le illumina il volto, ad esempio, rappresenta la vanità. La luce caravaggesca è sempre il risultato di un profondo studio. L’artista riesce a combinare magistralmente l’illuminazione naturale che filtra dalle finestre con quella di lumi ad olio creando effetti suggestivi che non hanno precedenti. Non è un caso, quindi che Storaro, grande direttore della fotografia ne sia rimasto affascinato.
A sperimentare gli effetti combinati della luce non poteva mancare anche un altro artista celebre per il suo approccio scientifico all’arte pittorica: Leonardo da Vinci. Ce ne parla nel suo Trattato sulla pittura: «Il lume grande ed alto e non troppo potente sarà quello che renderà le particole de’ corpi molto grate», scrive. Ed in pratica suggerisce di usare, a differenza di Caravaggio, una luce più morbida, meno incisiva. Poi aggiunge che “il
lume particolare fa i lumi riflessi, i quali spiccano le figure dai loro campi”. Questa volta propone di sfruttare la luce riflessa per schiarire le parti in ombra, così da staccarle dallo sfondo. Una pratica ben nota a chi è abituato a fotografare in studio dove particolari pannelli riflettenti o semplici polistiroli vengono impiegati appunto per questo scopo. Il risultato che si può ottenere è mostrato nelle due foto seguenti. Nella prima il soggetto è illuminato di spalle, in controluce, nel secondo scatto si è sistemato un pannello bianco davanti al volto, in modo da catturare e riflettere parte dei raggi prodotti dal controluce.

Il valore plastico, il senso di profondità di un’immagine a due dimensioni come la fotografia, è raggiunto solo attraverso un uso attento dell’illuminazione. E nella pratica non è sufficiente affidarsi ad uno schema di luci suggerito da qualche tutorial o letto in qualche manuale. La teoria serve al massimo come base di partenza per iniziare un percorso di ricerca personale. Uno perché piccoli variazioni nella sistemazione delle luci possono dare risultati molto differenti, due perché la luce è un elemento funzionale, utile a creare la giusta atmosfera.
Il valore espressivo della luce in fotografia trova gli esempi più evidenti nel cinema. Si prenda il caso di Frankenstein nella pellicola del 1931 di James Whale. Per rappresentare visivamente l’assurdo, il cadavere a cui viene ridata la vita, il regista usa una luce innaturale che viene dal basso, contraria alle leggi della natura. Si tratta di una scelta un po’ naïf con i tratti tipici dello stile espressionista, figlia dell’epoca in cui il film è stato girato. Ma l’idea è giusta. E credo, anche se si tratta di una supposizione, che Kubrick alle prese con Jack Torrance, lo scrittore protagonista di Shining interpretato da Jack Nicholson, ne abbia fatto tesoro. La scena ambientata nel salone dell’hotel in cui, Torrance, allucinato, ordina un drink per poi intrattenersi con il barman, ha una luce simile. Questa volta la sorgente viene dal bancone del bar, da cui filtra una luce diffusa e su cui il protagonista è appoggiato.
A differenza di Frankenstein qui la scelta è giustificata dall’ambientazione in cui si svolge la scena. Ma l’effetto alienante, contro natura anche è lo stesso.
