Giacomelli e Scanno
Quest’anno, in occasione del centenario della nascita di Giacomelli, molte sono le iniziative che ne hanno ricordato l’opera. Tra le varie mostre, a Senigallia, negli spazi espositivi di Pikart, la curatrice, Simona Guerra, ha proposto una mostra dedicata a Scanno. L’esposizione, a partire da una delle immagini più iconiche del maestro, ha voluto far luce su un momento importante della storia della fotografia marchigiana, cercando di contestualizzare l’opera di Giacomelli nella realtà regionale della sua epoca. Nasce così una collettiva che raccoglie e racconta la storia di un viaggio alla scoperta di un paese divenuto iconico per molti fotografi. Ne abbiamo parlato con la curatrice.
A Scanno non sono andati solo Giacomelli con il gruppo di fotografi attivi soprattutto a Senigallia e a Fermo, nelle Marche. Ricordiamo, uno per tutti, le foto di Cartier-Bresson. Dove e quando nasce l’interesse per Scanno?
Alla fine dell’800 si era già diffusa l’usanza del Grand Tour: un lungo viaggio nell’Europa continentale intrapreso dai ricchi dell’aristocrazia europea. Dopo Roma, Milano o Firenze, i viaggiatori iniziarono a scoprire anche luoghi più remoti come Scanno. Ci andarono tantissimi artisti, archeologi, antropologi. Così anche l’Italia più nascosta, più inedita, più sconosciuta divenne una meta.
Per quanto riguarda i fotografi non scannesi (che furono i primi a scattare) ricordiamo due donne: Hilde Lotz-Bauer e Elda Fitz che la raggiunsero verso la fine degli anni Trenta del ‘900. Ma ne seguirono molti altri.
Sicuramente un momento importante per i fotografi italiani è stato il 1954 perché Cartier-Bresson esce con otto fotografie di questo suo viaggio a Scanno su L’illustrazione italiana. Da lì in poi è tutto un susseguirsi di fotografi che partono alla scoperta del meridione italiano, Abruzzo compreso.
Come nasce la mostra? Esiste un legame che accomuna gli autori oltre al tema scelto?
Sono prevalentemente marchigiani. Io stessa sono marchigiana e mi interessa molto studiare la storia della fotografia nella mia regione. Vederli assieme è interessante anche per capire ulteriori connessioni tra loro e il loro modo di fotografare. Autori che si frequentavano tra loro, alcuni dei quali a Scanno sono stati insieme, anche se poi ciascuno è riuscito a tirar fuori la propria personalità, il proprio timbro stilistico.
Nelle opere di Eriberto Guidi ad esempio, più che le donne scannesi, noti l’attenzione che riponeva sull’architettura e le geometrie – un tema sempre a lui caro; di Domenico Taddioli apprezzi il suo modo di ritrarre in modo quasi giornalistico i soggetti che però, allo stesso tempo, mostrano l’importanza che per lui aveva la poesia visiva fotografica, il lirismo. Tortelli è forse l’autore più equilibrato nel rendere la quotidianità scannese. Lui ha amato moltissimo questo luogo in vita e lo ha visitato molte volte nel tempo.
Insomma ognuno mette in risalto un aspetto diverso, un punto di vista, eppure il soggetto è lo stesso.
Renzo Tortelli, © 1957
Quanto l’esperienza di tipografo ha inciso sulla ricerca artistica di Giacomelli?
Sì, il suo lavoro, ovvero il tipografo, è stato fondamentale per la sua attività artistica, perché lavorare all’interno di una bottega dove si componeva con i caratteri mobili e dove si lavorava con i vari macchinari e con gli inchiostri non era poi così diverso dal lavorare in camera scura con gli acidi.
Sappiamo che tra una fotografia “vera” e una riprodotta fotomeccanicamente ci sono delle differenze ma è un ambiente, quello in cui lavorava, che per forza di cose è entrato nel profondo della sua mente di fotografo e dunque le due cose sono estremamente connesse. Lo trovo affascinante! Inoltre gli inchiostri tipografici sono elementi che fanno parte della sua produzione pittorica.
Il corpo principale delle opere in mostra è strettamente legato alla scuola marchigiana, ed in particolare a due centri: Fermo e Senigallia. Un unicum nel panorama nazionale, ti va di parlarcene brevemente?
Nel dopoguerra questi due centri sono stati i più attivi per la fotografia in regione. Ma non gli unici.
A Fermo la scena era occupata dalle attività promosse dal Centro per la cultura nella fotografia con Luigi Crocenzi. A Senigallia invece Giuseppe Cavalli dava vita con altri al Gruppo Misa; attorno a lui già prima che si trasferisse nelle Marche gravitavano diverse figure e situazioni di rilievo a livello nazionale.
Il gruppo Misa era una sorta di continuazione delle attività de La Bussola – altro sodalizio – e il Misa diede sfogo a una nuova generazione di fotografi: quella di Giacomelli, Silvio Pellegrini, Ferruccio Ferroni, Alfredo Camisa, Piergiorgio Branzi per citarne solo alcuni.
Va detto però che le differenze fra queste “scuole” sono varie. Gli stessi animatori – Cavalli a Senigallia e Crocenzi a Fermo – sono due figure estremamente diverse sotto molti punti di vista: per il modo in cui guardavano alla fotografia in primis.
Che eredità ci hanno lasciato queste “scuole” nel presente?
Se si vuole avere un’eredità bisogna saperla custodire bene e anche conoscerla altrettanto bene. Bisogna capire dove si è arrivati per procedere oltre e per non produrre ripetizioni continue. Per questo mi piacerebbe vedere più attenzione a quello che è stato il tracciato già percorso dei nostri avi fotografi; perché attendo visioni nuove.
Oggi sono cambiate molte cose ovviamente: è cambiato il modo di stare insieme anche per i fotografi. Un gruppo come il Misa per esempio non potrebbe esistere oggi perché nessuno accetterebbe più un Cavalli che dice agli altri cosa e come vanno fatte le fotografie. Piergiorgio Branzi mi diceva che Cavalli non dava consigli o suggerimenti fotografici bensì pontificava!
Oggi si lavora più in autonomia e si prende dal passato quello che ci va o che risuona di più. A volte in maniera abbastanza grottesca, dal mio punto di vista. Ad esempio ritrovo i paesaggi di Giacomelli in tanti lavori contemporanei e mi chiedo in cosa consiste l’evoluzione di questi autori. Altre volte invece, c’è stato un salto importante e interessante.
L’eredità e poi destinata anche ai curatori più bravi, quelli che organizzano percorsi museali, mostre, conferenze su questi temi rendendoli vivi.
Eriberto Guidi, © primi anni Sessanta
Giacomelli soprattutto fu capace di fotografare la propria terra, dai paesaggi, ai pretini, agli ospizi, sempre però con una forte impronta soggettiva, personale. Qual è l’insegnamento che ha lasciato a chi si vuole avvicinare alla fotografia oggi?
E’ una questione soggettiva. Lui stesso osservava quanto fosse importante, in un giornale, leggere un piccolo trafiletto magari e non necessariamente tutte le pagine, selezionando solo quello che ci ha colpito e interessato, che ci appartiene in qualche modo. Ovviamente se il fotografo è sensibile valido e predisposto… sì Giacomelli può insegnare; diversamente è un po’ difficile. Dipende da chi guarda l’opera.
A me Giacomelli ha insegnato tantissime cose e fra queste che la fotografia è un mezzo per arrivare alle persone, un mezzo per guardarsi dentro, per creare un ponte di connessione con altre arti. Questa mi sembra soprattutto la sua lezione.
Ho pubblicato diversi libri su Giacomelli però ce n’è uno a cui sono particolarmente affezionata ed è “Mario Giacomelli. La mia vita intera”; è una lunghissima intervista in forma di monologo dove lui si racconta e dove parla anche del fatto che per lui la fotografia è stata soprattutto un mezzo per arrivare alle persone, un modo per far accadere cose.
Piktart è un piccolo spazio dedicato alla grande fotografia, con progetti originalissimi. Ce ne vuoi parlare?
Beh… ti ringrazio per il tuo apprezzamento! Piktart è nato nel 2019 e come sappiamo l’anno dopo è scoppiato un disastro mondiale. Per me è stato importante il fatto che sia nato proprio in quel momento; in quel buio globale quel progetto era una speranza da tenere viva, a cui tornare appena fosse rientrata l’emergenza. E così e stato.
Pikart è un luogo dove cerco di dare precedenza alla fotografia marchigiana. Sono convinta che ci sia un sommerso in questo ambito ancora enorme e che ci siano ancora molti autori di cui parlare, di cui raccontare. Inoltre credo nella curatela di mostre come espressione artistica. Questa di Scanno, ad esempio, è un percorso espositivo che ho sentito profondamente e che mi ha aiutata ad esprimermi.
Tra l’altro non credo che ci siano molti spazi così in giro per la regione; forse anche questo è un punto a favore dello spazio.
In futuro, quale sarebbe una mostra che più ti piacerebbe presentare?
Ci sono molti autori che ho in mente. Lavoro a tanti progetti contemporaneamente, spesso procedo per ognuno di essi “un centimetro al mese” però ne vale la pena. Sono particolarmente attratta da ciò che DEVE essere riportato alla luce: questo è un aspetto tanto motivante. Tra queste c’è la fotografia femminile. Da anni sto lavorando alla produzione di Maria Spes Bartoli, tra le altre, che nacque nel 1888 proprio a Senigallia e che è stata la prima fotografa professionista ad aprire uno studio suo nelle Marche. Una figura straordinaria e atipica in tutto. Lavorava sull’autoritratto come indagine di sé già negli anni ’10 del ‘900; lei che viveva nella provincia più provinciale, due secoli fa, riesce ancora a parlare ai fotografi del mio secolo con il suo lavoro straordinario.
