Fotografia di ritratto: Strand

Sull’ultimo numero di “Camera Work” nel 1917 il fotografo Paul Strand (1890-1976) pubblica “Blind Woman” il ritratto di una cieca. Si tratta di uno scatto tratto da una serie di fotografie colte per strada e realizzate in modo piuttosto curioso. Per poter lavorare inosservato Strand ha montato sul lato della macchina fotografica un obiettivo finto. In questo modo può fotografare la gente mentre sembra che stia puntando l’apparecchio da un’altra parte.
Effettivamente nella mia esperienza di fotografo ho notato come già anche i bambini più piccoli nell’istante in cui vedono una macchina fotografica tendono a mettersi in posa. E nell’istante in cui ci si mette in posa lo sguardo non sa più esattamente dove cadere. Nel cinema, per aiutare gli attori in questo senso, qualcuno si mette di fianco alla macchina da presa, in modo da veicolare lo sguardo senza che questo si perda nel nulla. Sono questi ed altri trucchi ad aiutare il soggetto ad apparire più spigliato. Un altro sistema che ho sfruttato qualche volta è quello di scattare una prima posa, alzare lo sguardo dal mirino, dando l’impressione di prendere una pausa e, nell’istante in cui il soggetto si rilassa, scattare una seconda fotografia.
Purtroppo oggi la tecnica usata da Strand per ritrarre le persone senza essere visto pone un grande limite, quello della privacy. La legislatura a riguardo è molto chiara: per utilizzare le fotografie di ritratto il soggetto deve rilasciare una liberatoria firmata.
Ma Paul Strand non ha fotografato sempre così. Ad esempio lo ritroviamo in Italia nei primi anni Cinquanta mentre ritrae i compaesani di Zavattini per realizzare quello che sarà il primo fotolibro pubblicato in Italia: “Un paese”. Questa volta non usa una macchina truccata, lavora anzi con un apparecchio dall’aspetto antico fermamente fissato su di un treppiedi.
«Avevo incontrato Strand al congresso dei cineasti a Perugia nel 1949 (…) poi lo rividi a Roma tre anni dopo – scrive Zavattini nella prefazione del libro – e ora son qui, davanti al suo lavoro, una novantina di fotografie di Luzzara che Strand può fare sempre vedere come prova della sua solidale attenzione per il prossimo». Si tratta questa volta di fotografie ben studiate, realizzate nell’arco di un mese, e accompagnate ciascuna da un’intervista redatta con lo stile tipicamente neorealista di Zavattini. Scatti in cui si percepisce l’attenzione nel guidare la posa, in cui si evince la cura di ogni dettaglio.
Due stili, lo scatto rubato e quello in posa, di pensare la fotografia in modo molto diverso che dimostrano come la spontaneità non sia un ingrediente necessario. Fondamentale è piuttosto l’atteggiamento del fotografo, e soprattutto l’abilità di trovare la soluzione più adatta a quello che in una data circostanza si desidera rappresentare.
Certo, una posa ben riuscita deve andare oltre la semplice raffigurazione estetica: deve anche poter raccontare. E perché ciò avvenga deve esserci un punto d’incontro ideale tra il fotografo e il soggetto. E se si pensa inoltre che una buona foto non può prescindere dagli aspetti tecnici, l’impresa non è affatto semplice. La scelta dell’ambientazione, dell’angolo di ripresa, tanto più rigida se si fotografa con una macchina pesante da usare sempre su treppiedi, l’attenzione nello scegliere il taglio di luce più propizio, sono gli altri ingredienti che determinano il valore plastico dello scatto. Ed appunto in questo risiede il valore dell’opera di Strand che, è bene ricordare, fu rappresentante di spicco di quel movimento che, all’inizio del Novecento, promuoveva una fotografia pura. Una fotografia, ovvero, che si liberava dalla sudditanza alla pittura tipica del secolo precedente che viceversa prediligeva l’uso di tecniche che ne scimmiottavano la resa estetica. L’interesse di Strand è viceversa rivolto interamente alle tematiche sociali, attraverso un ricerca formalista capace di conferire alla fotografia un valore artistico autonomo.
